Buongiorno a tutti! La parabola dei talenti che leggiamo e meditiamo in questa trentatreesima domenica del Tempo Ordinario ci offre la possibilità di riflettere, mentre ci avviamo al compimento dell’anno liturgico, sul senso della vita e del suo destino finale. Ascoltiamo con fede la Parola.
Come nella parabola delle dieci vergini che abbiamo commentato domenica scorsa, anche nella parabola dei talenti Gesù parla della morte e dell’esito della nostra vita non per spaventarci ma per invitarci a viverla in ogni istante con consapevolezza e responsabilità. Facendo attenzione alla narrazione, è inevitabile domandarsi: che cosa sono concretamente i talenti? Nell’antichità, in diverse civiltà, costituivano delle unità di misura di peso che corrispondevano ad un carico di circa 30 kg, dal valore economico variabile dai 5 ai 150 milioni di euro, a seconda che fossero d’argento o d’oro. Il padrone che affida ai servi i talenti, sta di fatto mettendo nelle loro mani una ricchezza fuori misura. Di cosa sono il simbolo? A cosa corrispondono? Nei primi secoli, sant’Ireneo di Lione diceva che i talenti sono la vita accordata da Dio a ogni persona. La vita è effettivamente un dono di valore inestimabile che non va assolutamente sprecato, ignorato o dissipato. Per altri Padri della Chiesa, sempre nei primi secoli, i talenti sono le parole del Signore affidate ai discepoli perché siano da loro custodite e fatte fruttificare. In ogni caso, dal racconto appare evidente che, qualunque sia la realtà che essi significano, sia che si tratti del dono della vita o del dono della Parola, il compito di chi li riceve è quello di CUSTODIRLI e FARLI FRUTTARE.
È interessante notare che i talenti non vengano dati a tutti in ugual misura. Ciascuno li riceve, dice la parabola, secondo le proprie attitudini. Ci costa dirlo, ma è la verità: non siamo tutti i uguali nelle capacità. Ciò non esclude però il fatto che si sia tutti uguali nella dignità, nell’essere ugualmente figli amati e degni della fiducia del Signore. Quando, infatti, alla fine del racconto il padrone ritorna, convocando i servi, chiede conto, a ciascuno, della fiducia in loro riposta. I due che rispettivamente avevano ricevuto cinque e due talenti dimostrano di essere stati intraprendenti, capaci di rischiare, impegnandosi a far sì che i doni ricevuti non fossero diminuiti, sprecati o inutilizzati. Il Signore li loda e li premia raddoppiando quanto avevano inizialmente ricevuto. Il terzo servo, che aveva ricevuto un solo talento, al contrario dei primi due, presentandosi con lo stesso unico identico talento avuto inizialmente si giustifica dicendo: «Tu mi fai paura, perché sei un Signore severo, pretendi troppo da me, molto di più di quanto non sia capace di ricambiarti!». Il servo dimostra in questo modo di avere due problemi. Il primo è che si è lasciato dominare dalla paura al punto da farsene bloccare completamente. Ma paura di che cosa? Paura di perdere tutto, di perdere ciò che è sicuro, piuttosto che cambiare registro e intraprendere strade nuove. Collegato a questo c’è il secondo problema, quello di pensare che per fare il bene sia sufficiente non fare il male. Le persone che vivono come spettatori della vita degli altri, che stanno alla finestra senza mai coinvolgersi, hanno certamente meno occasioni di peccare. Non fanno male a nessuno, ma non per questo stanno facendo il bene.
Una sintesi della parabola è, in definitiva, quanto dice Gesù in un altro punto del Vangelo: «Chi vorrà salvare la propria vita la perderà, ma chi la perderà per causa mia e del Vangelo la troverà!» (Mt 16, 25).
Signore, dacci la forza di vincere la paura di fronte alle sfide della storia. Con il tuo Spirito, sostieni e illumina la nostra intelligenza perché possiamo rispondere ad esse con creatività evangelica. Buona domenica di vero cuore a tutti!