Buongiorno a tutti. La quarta domenica del tempo pasquale è detta “domenica del Buon Pastore” per via del fatto che nel vangelo, in essa proclamato, Gesù dice di se stesso d’essere il Pastore buono delle pecore. Ci tengo, inoltre, a ricordare che in questa domenica, in tutta la Chiesa, si celebra, dal 1964, per volontà di san Paolo VI, la Giornata di Preghiera per le Vocazioni. Un’intenzione di preghiera che proprio Gesù ci ha chiesto di fare nostra quando ha detto: «Pregate il padrone della messe, perché mandi operai nella sua messe». Avendo ben presente questo, disponiamoci con il cuore e la mente aperti ad accogliere la Parola. Ascoltiamo con fede.
Tutte le parole che abbiamo ascoltato non sono rivolte esclusivamente alle persone che oggi, nella Chiesa, chiamiamo pastori: il papa, i vescovi, i presbiteri. Sono parole che Gesù rivolge ai discepoli per comprendere meglio chi Lui sia e per chiarire a noi, di conseguenza, chi siamo per Lui e quale sia il legame che vorrebbe che si stabilisse tra Lui e noi. I primi dieci versetti del capitolo decimo capitolo di Giovanni ci dicono di questo rapporto diverse cose interessanti. Ne metterò in evidenza due.
La prima: il buon pastore entra dalla porta al contrario del ladro e del brigante che scavalcano la recinzione. Questa differente modalità di accesso all’interno dell’ovile viene presentata da Gesù per dire una cosa che molto spesso tendiamo a dimenticare, e cioè che la Chiesa è SUA. Entra dalla porta, infatti, colui che ha diritto d’accesso. Un diritto che dipende unicamente dal fatto che l’ovile e le pecore in esso contenute gli appartengono. Mi viene in mente il dialogo del Risorto con Pietro sulle rive del Lago di Tiberiade (Gv 21, 15-19) in cui è rimarcato con insistenza non solo quanto Pietro ami Gesù – “mi ami tu?” viene ripetuto per ben tre volte – ma anche che la Chiesa che il Risorto affida alle cure di Pietro continua ad essere sua – “pasci I MIEI agnelli” (v. 15) , “pasci le MIE pecore” (v. 17). Avere consapevolezza che il pastore entra dalla porta, che l’ovile e il gregge gli appartengono, serve quindi ai discepoli per combattere qualsiasi atteggiamento di possesso e a vivere la missione nella cura responsabile della Chiesa, dell’umanità, del mondo, di ogni realtà che è stata affidata alle loro cure.
La seconda cosa interessante: il “buon pastore” chiama le sue pecore, ciascuna per nome. Il rapporto che il “buon Pastore” ha con il gregge non è indifferenziato. Le pecore non sono curate in blocco, ma una per una. Questo tratto ci dice che il Pastore ha una conoscenza dell’intero gregge tale da saper individuare con precisione l’identità di ogni suo componente. “Chiamare per nome” vuol dire ancora una volta familiarità, ma non solo, perché il chiamare per nome significa accoglienza dell’intera persona, con tutti i suoi pregi e difetti e la sua storia. Anche la cosiddetta “pecora nera”, potremmo dire, è chiamata per nome dal Pastore. Nessuna pecora può essere esclusa dalla sua attenzione e dalla sua cura. Chiamati a conformare la propria vita a quella di Gesù, i discepoli dovrebbero cogliere in ciò un chiaro invito a vivere con le persone che il Signore affida loro, relazioni familiari, capaci di cura e attenzione verso tutti, indistintamente. Se quindi si applicano le caratteristiche del “buon pastore” alla vita cristiana di ogni singolo fedele e alla vita pastorale della Chiesa si comprende che le persone possono incontrare il Signore, ascoltarlo e seguirlo solo nella misura in cui si sono fatte immagine del “pastore” che cerca di avere con tutti non un rapporto contrassegnato dalla genericità ma attento alla persona, alla sua storia e alle sue necessità.
Signore, fai che possiamo, maturare in noi la consapevolezza che tu sei il nostro pastore e noi il tuo gregge. Fai, soprattutto che cresca in noi, attraverso questa similitudine, la certezza della tua cura amorevole per ciascuno di noi. Buona domenica del buon pastore a tutti.