Buongiorno a tutti! La liturgia della quarta domenica di Quaresima ci propone una delle parabole più belle tra quelle che Gesù ci ha consegnato: la parabola del figlio prodigo. Più che una semplice narrazione, possiamo intendere questa parabola come una finestra attraverso la quale ci è dato, in un certo modo, intravedere l’amore folle che Dio Padre ha per ciascuno dei suoi figli, nessuno escluso. Mettiamoci in ascolto attento e obbediente della Parola.
La parabola del figliol prodigo – detta anche del padre misericordioso – e le due brevi parabole che la precedono, quella della pecora smarrita e della dracma perduta, sono solitamente indicate come parabole della misericordia. Con esse, Gesù intende aiutare i suoi ascoltatori, noi inclusi, a comprendere che l’amore di Dio è infinitamente più grande del peccato degli uomini. Sebbene questa sia una consapevolezza già maturata dalla sapienza di Israele, come attestano le Scritture, c’è sempre dietro l’angolo la tentazione di sostituire Dio con la Legge, la fede con le tradizioni religiose. Le parole dell’evangelista Luca, poste come introduzione al brano evangelico che stiamo meditando, lo mettono bene in evidenza, presentandoci le mormorazioni degli scribi e dei farisei riguardo all’accoglienza riservata da Gesù ai pubblicani e ai peccatori. Sembra di vederli, turbati in volto, mentre pensano: «Come può Gesù non sapere che condividere la tavola con loro lo porterebbe a contaminarsi, a compromettersi del tutto, a rischiare di esservi associato, subendo la stessa pena di esclusione dalla piena comunione con Dio e con i fratelli?». Gesù conosce bene le riserve che farisei e scribi nutrono nei suoi confronti. Riserve che gli hanno valso il soprannome di “mangione e beone, amico delle prostitute e dei pubblicani”. Lo sa, ed è proprio per questo che si premura di mostrare, attraverso racconti esemplari, quanto siano lontane le posizioni dei suoi detrattori dalla misericordia di Dio. Dio, dice la parabola, è un Padre che ama visceralmente i propri figli. E continua ad amarli anche quando essi lo ignorano, lo rifiutano, lo considerano morto. Questo, in fondo, è ciò che pensa il figlio – il primo dei due – quando chiede che gli venga data la parte di patrimonio che gli spetta. Se consideriamo che l’eredità può essere legittimamente riconosciuta solo alla morte del padre, si comprende bene il senso profondo di quella richiesta. È come se il figlio dichiarasse: «Per me, anche se sei vivo, è come se non esistessi più, come se fossi già passato a miglior vita». Davanti a questo atteggiamento, dice Gesù, il Padre non si oppone. Proprio perché ama, rispetta la libertà del figlio di voltargli le spalle. Ma ciò che più colpisce, oltre a questo, è il fatto che l’amore del Padre rimane intatto. Continua a sperare in un ritorno, in una riconciliazione. L’amore misericordioso di Dio non si arrende davanti ai peccati degli uomini. Anzi, cresce proporzionalmente con essi. Quanto più il figlio si allontana, tanto più l’amore di Dio per quel figlio cresce. Dio, proprio perché è un Padre buono, ama tutti, ma ha un debole per i peccatori. Gesù lo afferma in risposta agli scribi e ai farisei, che – in un altro passo del Vangelo – assistono scandalizzati alla chiamata di Matteo, il pubblicano, tra i suoi discepoli. Egli afferma che il Figlio dell’uomo, come il medico che si prende cura dei malati e non dei sani, è stato mandato per i peccatori, non per i giusti.
Se consideriamo che l’amore misericordioso del Padre, testimoniato da Gesù, è destinato ad essere testimoniato anche da noi, comprendiamo che la parabola, mentre ci rivela il cuore di Dio, ci indica anche l’ideale verso cui siamo chiamati a tendere. Essere testimoni di misericordia – lo sappiamo e ce lo ripetiamo spesso – non è semplice. Ma la difficoltà che sperimentiamo non deve mai diventare un alibi per mettere da parte il nostro impegno.
Signore, Padre di ogni misericordia, aiutaci a conformare il nostro cuore al tuo. Buona continuazione del cammino quaresimale a tutti!