XXII Domenica del Tempo Ordinario – 1° settembre 2024

Buongiorno a tutti! Dopo aver dedicato le ultime cinque domeniche alla meditazione del capitolo sesto del Vangelo secondo Giovanni, riprendiamo, a partire da questa domenica, la lettura continua del Vangelo secondo Marco. Ci troviamo, per l’esattezza, all’inizio del capitolo settimo, il quale ci riporta un contenzioso tra Gesù e i farisei, al centro del quale c’è un ammonimento: state attenti – sembra dire Gesù – a vivere una religione fatta solo di gesti puramente esteriori! Mettiamoci in ascolto.

Gesù si trova di fronte un gruppo di farisei giunti in Galilea da Gerusalemme per verificare la sua ortodossia. Hanno una questione da sottoporgli, la quale più che lui, personalmente, riguarda i comportamenti scandalosi dei suoi discepoli. Essi, infatti, sono stati più volte notati consumare i pasti senza prima aver scupolosamente osservato il lavaggio rituale delle mani. Gesù li ascolta meravigliato. È colpito dall’atteggiamento ipocrita dei suoi interlocutori e lo dice apertamente ripresentando il giudizio di Dio che secoli addietro era stato rivelato per bocca del profeta Isaia: «Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rende culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini». Sono parole terribili che suonano come un vero e proprio atto di accusa verso un certo modo di vivere la religione. Gesù non si sta scagliando in modo duro contro le tradizioni degli uomini, ma verso la tendenza a renderle più importanti del comandamento di Dio sino a negarlo.

Fede e religione, diceva Joseph Ratzinger, in un testo del 1967 intitolato Introduzione al Cristianesimo, non sempre coincidono. Si può, infatti, paradossalmente vivere una religione senza fede ma anche una fede senza religione. La fede senza religione può capitare di incontrarla in tante persone che pur non partecipando alla vita ecclesiale, hanno una vita PIÙ cristiana di tanti cristiani praticanti. Ma il vero problema, messo in luce da Gesù, è nella religione vissuta senza fede. Quand’è che ci si espone a questo rischio? Senza dubbio quando si vive la religione come una forma di superstizione o di magia. Faccio un esempio un po’estremo per provare a spiegarmi: si può benissimo benedire un coltello perché faccia sempre bene il suo servizio, ma che il coltello serva per affettare il pane o per sgozzare una persona non dipende dalla benedizione, ma dalla coscienza di chi lo usa. Vivere la religione come superstizione – pensiamo alle palme benedette nella domenica con cui si apre la Settimana Santa – o come magia, fatta di parole e gesti, con cui ci garantiamo la benevolenza di Dio, è un’esperienza che deresponsabilizza, che porta a non prenderci cura del cuore, del profondo della coscienza, in cui il Signore si manifesta e guida le persone verso il bene.

La formazione della coscienza è un compito delicato, che aiuta, quanti vi si impegnano nell’arco di una intera esistenza, a vivere in pienezza l’incontro con Dio e con il prossimo. Per questo Gesù, ai suoi discepoli, dice: «Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro». A questa affermazione segue una lista impressionante di peccati, la più dettagliata di tutto il Nuovo Testamento, che, significativamente, riguarda i peccati consumati contro l’amore: è nei rapporti umani che la legge di Dio chiede carità, misericordia, sincerità e fedeltà. Il male non sta nelle realtà terrene ma risiede laddove affermiamo solo noi stessi e non riconosciamo gli altri.

Signore, aiutaci a vivere una religione autentica, fondata nella fede, nella carità, nella speranza, per combattere tutte le tentazioni dell’esteriorità e del formalismo. Buona domenica di vero cuore a tutti.

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